GUIDO QUAZZA E LA TRAGICA FINE DI IRMA PILLOT.

Questo libro è uno dei testi storici della resistenza italiana.
Per quanto riguarda il Piemonte e la terra biellese, esso riporta un diario giornaliero dell’autore che parte dal volontario esilio a Valle Mosso per sfuggire agli obblighi di leva della Repubblica Sociale Italiana, fino alla lotta nella resistenza in Val Sangone a capo di una banda partigiana.
Quello che stupisce è la progressiva involuzione verso la crudeltà e l’efferatezza della guerra civile.
Le pagine del diario sono piene di uccisioni, di catture di prigionieri fascisti o tedeschi, di processi sommari e relative esecuzioni.
Di ausiliarie, di presunte spie talvolta “tosate” o più soventemente fucilate, di prigionieri impiccati, eliminati con freddezza e poi dimenticati con stupefacente leggerezza.
Ora leggo che a Milano sorgerà il Museo Nazionale della resistenza.
Che costerà alla collettività 17,5 milioni di euro.
Sarà veramente un racconto completo della storia della guerra civile o riporterà le “verità” di una sola parte, nascondendo sotto il tappeto le crudeltà perpetrate dai vincitori per loro stessa ammissione?

LA VERGOGNA E IL RIMORSO.

Un commento dell’amico Michele Camelot al mio articolo sul libro del biellese Guido Quazza “La resistenza italiana”, mi ha fatto lungamente riflettere sulla vicenda di questa povera ragazza di 21 anni, Irma Pillot, processata e fucilata da un improvvisato tribunale partigiano di cui faceva parte l’autore.
Guido Quazza scriverà nel suo diario :
“In cinque condanniamo a morte Irma P., una spia, dopo averla convinta a confessare, penoso…”
Un altro partigiano Giulio Nicoletta, dichiarerà in seguito :
“…fu una scena pesante. La ragazza si mise a pregare, disse che era disposta a stare nelle bande facendo la prostituta, che non voleva morire”.
Parole quasi di dileggio, forse di velato pentimento, alla memoria di questa povera ragazza, spietatamente trucidata e sepolta in un luogo tuttora sconosciuto.
Mi sono pertanto immedesimato in lei.
Ho quasi sfiorato la sua disperata volontà di sopravvivenza, il suo pervicace desiderio di uscire da quell’incredibile situazione, di cancellare quegli autoproclamati giudici che potevano decidere in un attimo della sua giovane esistenza, dei suoi affetti, del suo innocente, quasi animale, attaccamento alla vita.
Il rimorso emerge velato nelle loro parole di vecchi reduci partigiani.
Non basta il fango gettato sulla vittima a sopire quello sguardo, quelle grida, quella disperazione.
Una costante emerge però dalle testimonianze processuali degli archivi che vado consultando.
Molte di queste donne nei loro ultimi istanti di vita gridarono in faccia ai loro carnefici queste parole :
“VIGLIACCHI, VIGLIACCHI, VIGLIACCHI !”