Donne, fascisti e partigiani.

Ieri tra i fascicoli processuali sembravano voler emergere storie di donne di facili costumi che popolavano i vari comandi repubblicani.

Non che il problema fosse esclusivo appannaggio delle formazioni fasciste, tanto che Domenico Roccia nel suo “Il Giellismo Vercellese” del 1949, descriveva con livore la totale mancanza di moralità presso le formazioni partigiane dell’Alta Valsessera.

Bisogna inoltre considerare che alcune ausiliarie repubblicane preferivano dichiarare una presunta immoralità piuttosto che ammettere la propria qualifica di donne combattenti, che avrebbe portato a ben più gravi e drammatiche conseguenze.

Fatto sta che tra i vari procedimenti, uno in particolare mi ha colpito per la trasversalità della singolare vicenda.

Nellina, residente a Vigliano Biellese, intratteneva usuali relazioni con militi repubblicani del “Btg. Pontida”, asserisce di essere stata fidanzata con uno di loro ma ammette di non avere disdegnato saltuari incontri con altri.

Stringe amicizia con un’altra giovane, Lidia, sposata con Vittorio, fuggito in montagna e partigiano nella 110° Brigata Garibaldina.

Nellina si trasferisce da Lidia e sembra trascinare l’amica nel vortice di perdizione, tanto che il marito, allertato dalla Polizia Partigiana, se ne accorge, scende a Biella, e tenta di convincere la moglie a seguirlo in montagna.

Per tutta risposta le due si coalizzano e lo denunciano ai repubblicani.

Vittorio viene arrestato, condotto nella Caserma del Piazzo e qui, e trovo la situazione veramente kafkiana, l’ufficiale fascista, quasi a calarsi nel ruolo del giudice conciliatore, riunisce i due coniugi e tenta di indurli alla riappacificazione.

Vittorio viene rilasciato e torna da solo in montagna.

Il giorno della liberazione Lidia viene prelevata dai partigiani.

Vittorio dichiara alla fine nella sua deposizione processuale :

“Già era al cimitero per essere fucilata, quando intervenni io…………e la salvai”.

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